Cor. Cuore. Coraggio. Be courageous

Una lettura personale, al tempo del Coronavirus.

Pochi giorni fa è arrivato in ufficio un pacco che nessuno di noi aveva ordinato. L’etichetta riportava il mio nome ed io ho passato alcuni istanti a tentare di capire cosa potesse essere. Poi finalmente una lampadina si è accesa e mi è tornata alla mente una conversazione con un cliente: “nei prossimi giorni arriverà un pacco per te”. Apro il cartone esterno e, all’improvviso, la mia mascella cede alla forza di gravità. Gli occhi si allargano su una bellissima, grande scatola color tortora, chiusa ai lati da un nastro di stoffa. Al centro la scritta “Brunello Cucinelli”. All’interno altre scatole più piccole, di varie dimensioni ed un biglietto scritto a mano: “Un piccolo pensiero per l’aiuto, l’ascolto e la squisita disponibilità. Nella speranza di poterci vedere presto. M.”

Tra i tanti oggetti che M. aveva scelto di inviarmi (si, ammetto che per una frazione di secondo ho sperato in un maglione o una borsa, ma sono tornata subito coi piedi per terra), il più bello era un quaderno dalla copertina color avana con una scritta in blu: “Be courageous”. Sul suo sito, il re del cashmere scrive:

“Dal latino “cor”, cuore, deriva la parola coraggio, una forza d’animo che si può manifestare in tanti modi diversi. Essere coraggiosi, abbattere le barriere… Perché il coraggio … Ci rende liberi d’immaginare e, soprattutto, ci dona la forza per realizzare i nostri sogni… Prendere una decisione importante, difendere le nostre idee e quelle degli altri, rischiare significa avere coraggio.”

Mentre tutti noi ci troviamo in mezzo alla terza ondata di Coronavirus, il termine coraggio assume un significato fondamentale. Ho scritto e modificato questo post forse cento volte, qualsiasi frase digitassi mi sembrava banale e già sentita. Il coraggio ha mille forme, ma questo è un blog che parla di Ma Che Buoni e quindi oggi vi racconto il coraggio di chi ci lavora. Senza avere la presunzione di essere gli unici ad aver affrontato le difficoltà a testa alta o di aver costruito qualcosa di bello nonostante il periodo tremendo.

Coraggio è mio padre, che a 60 anni si rimette in gioco in un settore che non conosce, inventandosi qualcosa che non esisteva e che nel frattempo continua a venire ogni giorno in azienda e a seguire tutto ciò che gli compete. Senza lamentarsi della stanchezza, senza mai lasciare che il nervosismo prenda il sopravvento.

Coraggio è mia madre, che nonostante svolga un lavoro fisicamente pesantissimo, continua ad essere presente in cucina, a guidare e coordinare una squadra di 10 persone. Ad adeguare le linee produttive in base ai continui apri/chiudi/diventa giallo-rosso-verde-blu-fosforescente. Perché sa che se molla lei, tanti prodotti potrebbero mancare agli ordini mentre altri rischierebbero di restare invenduti in magazzino.

Coraggio è Laura che, nonostante 3 figli a casa in DAD ed un marito con un lavoro che lascia poco spazio alla vita personale, si organizza comunque per non perdere un solo giorno di lavoro. Segue fatture, spedizioni, brevetti, marchi, varie ed eventuali senza sbagliare un colpo. Perché sa che se mollasse lei, tutto si riverserebbe a cascata sui colleghi dell’ufficio che corrono già da mattina a sera.

Coraggio è il nome di ognuno dei miei collaboratori, che da un anno a questa parte hanno dovuto adattarsi a nuovi e diversi ritmi di lavoro. A prodotti, lavorazioni e confezioni diverse da quelle che conoscevano. A giorni in cui gli viene chiesto di mostrarsi ad una macchina fotografica, perché anche raccontare sui social come svolgono il loro compito in cucina è diventato importantissimo.

Coraggio è la mia amica Claudia, che segue la comunicazione di Ma Che Buoni come se si trattasse della sua azienda. Anche quando la sua azienda è costretta a chiudere e riaprire in base ai decreti. E’ la sua capacità di creare nuove strade, di investire in progetti nuovi anche quando l’incertezza del futuro bloccherebbe chiunque altro.

Coraggio è anche quello del mio compagno, che mi sostiene ogni giorno e mi regala risate allegre quando stiamo insieme la sera sera. Coraggio di due figli meravigliosi, che sopportano le tante ore di lavoro, la chiusura della scuola, e che quando sono a casa non chiedono altro che stare con me.

Cor. Cuore. Coraggio. Be courageous. #nonmolliamo

Airmaskit, ovvero come stampare un’idea in 3D.

Airmaskit: dai tortellini alle mascherine chirurgiche. Intervista a Giordano Perugini

Questo articolo è un po’ diverso da quelli che di solito scrivo, sia per l’oggetto di cui parlo, sia per la modalità con cui ne parlo; è infatti la prima intervista del blog.

L’oggetto di cui vi racconto è Airmaskit, un dispositivo (non medicale) per mascherina chirurgica inventato e brevettato da… mio padre! Forse vi starete chiedendo di cosa si tratta e che cosa c’entra con Ma Che Buoni. E’ vero, questa volta non parliamo di ricette o di ingredienti genuini, eppure Airmaskit racchiude in sé l’essenza stessa della nostra piccola azienda a conduzione familiare. Rappresenta perfettamente una delle nostre caratteristiche migliori (evviva la modestia!): la capacità di adattarci ai tempi così mutevoli in cui viviamo, di credere ed investire in un progetto che altri ancora nemmeno immaginano possa esistere. D’altronde Ma Che Buoni è nato proprio così, dalla voglia di reagire al cambiamento epocale che il Corona virus aveva portato in azienda.

La persona che intervisto è appunto mio papà. Quando penso a lui e a ciò che ha costruito, mi chiedo spesso (con orgoglio) dove abbia trovato il coraggio di fare certe scelte, da dove gli venissero le idee. Classe 1960, diplomato ragioniere: al tempo avrebbe potuto lavorare come impiegato e condurre una vita più regolare di quella che ha avuto. Invece a 18 anni si è messo a vendere pentole, a 19 spillatori per birra e a 24 ha aperto con mamma un ristorante da cerimonie. Attenzione, non voglio sminuire alcun mestiere. Nella vita non conta tanto quello che fai, ma come lo fai. Ed infatti è il come ha fatto determinate cose che mi ha sempre affascinata. Ecco quindi a voi la mia intervista a Giordano Perugini.

Maila: “Quando e come hai avuto l’idea di realizzare Arimaskit?”

Giordano: “L’idea mi è venuta nel luglio 2018, mentre sostituivo un addetto alla produzione che per malattia non era venuto a lavoro. Sono stato una settimana in produzione con la mascherina, non riuscivo a sopportarla: ogni volta che me la abbassavo per respirare venivo ripreso da mia moglie e dovevo rimetterla subito. A fine giornata ero stanco e mi faceva male la testa, così ho pensato che se fossi riuscito a non respirare tutto il giorno aria consumata non avrei avuto l’emicrania. Dal secondo giorno di lavoro in produzione ho iniziato a pensare a come poter risolvere il problema ai nostri collaboratori, che, al contrario di me, devono lavorare tutto l’anno con la mascherina chirurgica.”

Maila: “Quali sono le difficoltà che hai incontrato durante il percorso?”

Giordano: “Difficoltà tante,  ma soprattutto la mia ignoranza in materia è stato il più grande ostacolo. Inoltre, cercando di capire come risolvere il problema, mi sono tenuto tutto dentro e non ne ho parlato con nessuno. Così facendo non ho trovato subito la soluzione, che invece era semplice e davanti al mio naso.

Io volevo risolvere il problema costruendo una mascherina con un bordino di stoffa che dividesse il naso dalla bocca: respirando con il naso ed espirando con la bocca, avrei evitato di far rientrare nei miei polmoni l’ aria già consumata, carica di anidride carbonica.

A Settembre 2020 ne ho parlato con la mia famiglia, avevo capito che non si poteva fare in stoffa e mi era venuta l’idea delle stampanti 3 D. Semplice a dirsi, ma difficile capire a chi rivolgersi. Magari qui nei dintorni le sanno usare in tanti e benissimo, ma siccome siamo marchigiani non ci facciamo la giusta pubblicità. Maila mi ha presentato Daniele, suo amico d’infanzia, che mi ha realizzato i primi prototipi. Li ha modificati e migliorati fino a che non li ho reputati adatti allo scopo che mi ero prefisso. Parlare aiuta sempre a risolvere i problemi, ma forse era vero che neanche io ci credevo cosi tanto.”

Maila: “Qual è il punto di forza di Airmaskit?”

Giordano: “Se usata correttamente, aiuta a non respirare aria consumata e quindi ad evitare il mal di testa. Per questo abbiamo creato subito anche una linea “baby” per i bambini e ragazzini che  a scuola sono costretti ad indossare sempre la mascherina chirurgica e si stancano molto più del normale. Inoltre, non ti fa ingoiare quei fastidiosissimi “pelucchi” che si creano sulla mascherina dopo un po’ che la porti. Quando vanno a finire in gola creano tantissimi disagi se devi parlare.

La commercialista ci ha anche fatto notare che portando un giorno intero Airmaskit non le si era rovinato il rossetto né il fondo tinta. Devo ammettere che a questo non avevo assolutamente pensato, ma è comunque un problema risolto, anche se involontariamente.”

Maila: “Ci racconti qualcosa di divertente che è successo lavorando alla realizzazione di Airmaskit?”

Giordano: “Ogni volta che parlavo con miei conoscenti di questo articolino che volevo creare, vedevo le facce più strane, come a dirmi che ero matto. Ora che l’idea ha preso forma posso farlo provare con mano: continuo sì a vedere quelle espressioni, ma una volta che lo indossano correttamente, mi richiamano per farmi i complimenti e ringraziamenti per il sollievo che ne traggono. Forse non sono più così matto come sembravo all’inizio”.

Maila: “Nella vita hai sempre iniziato percorsi nuovi, vedendo opportunità dove gli altri non vedevano niente. Che consiglio daresti a chi vuole mettersi in gioco come te?”

Giordano: “Non c’e da mettersi in gioco, basta ascoltare i discorsi degli altri. Molto spesso le persone con cui parliamo ci danno degli input a loro insaputa, ci parlano di problemi che hanno quotidianamente, ma ci danno anche la soluzione al loro problema. Basta ascoltarli, capire prima il problema e poi tirar fuori la soluzione.

Oppure quando lavori o fai altro, cerca di capire come si potrebbe lavorare meno e finire prima, così da poter dedicare più tempo a te stesso. Così troverai la soluzione che ti agevola nel lavoro. Se proprio non ci riesci rivolgiti a me, per quattro soldi ti risolvo il problema al volo.”

Sabato sera “filmone”

Ma Che Film. La rubrica di dicembre… preparate i pop corn!

Quando ero bambina, il sabato sera d’inverno per me era appuntamento fisso con Canale5 o Rete4. Fratelli o sorelle più piccoli da torturare non ne avevo, per cui, una volta “rubato” dalla cucina quello che più mi andava di mangiare, filavo su per le scale fino al nostro appartamento. Mentre mamma e papà lavoravano al ristorante, io cenavo in compagnia dei miei attori preferiti. Non erano cene tristi, tutt’altro! Ad accompagnare il pasto c’era sempre un bel film che mi faceva divertire ed i piatti che mangiavo prendevano poi per me il nome della pellicola di turno. Così avevo il filetto de “Il principe cerca moglie” o la crescia con il prosciutto di Fantozzi. Devo dire che rispetto ai sabato sera dei miei figli, a livello culinario il mio era di ben altro livello (mi spiace bimbi, ma per quello che non sa fare mamma, compensa tutto quello che sa fare nonna!).

Crescendo la passione non è diminuita, ma si è accentuata e spostata sempre più verso il cinema italiano. Io ed il mio compagno stiamo praticamente plasmando i gusti dei nostri figli tanto che Nicole a 10 anni conosce già il Marchese del Grillo ed il piccolo (3 anni!) ci fa le prime supercazzole. Ne sono molto orgogliosa, devo ammetterlo. In casa nostra, oltre a Peppa Pig e ai Me Contro Te c’è anche un bel pezzo di storia del cinema nostrano.

Così, quando si è trattato di preparare il calendario editoriale di Dicembre per Ma Che Buoni, la scelta è stata obbligata! Cosa c’è di più natalizio del filmone di Natale?! Si, sono sempre gli stessi titoli da 30 anni a questa parte. Si, non sono tutte esattamente pellicole da Oscar, ma a me fanno ancora morire dal ridere. “Senti sto prosciutto quant’è ddddorce?!” o “Polpppppette di Bavaaaaaria” sono frasi che in ufficio ripeto allo sfinimento, la povera Laura (che ha la scrivania di fronte a me) prima o poi mi chiederà un ufficio da sola. Non scherzo, una volta si è veramente portata un paio di cuffie rubate al figlio pur di non sentirmi. Probabilmente dovrei farmi delle domande, ma siccome “la risposta è dentro di te e però è sbagliata“, continuo imperterrita per la mia strada ed anzi, amplio i miei orizzonti anche sul web.

Per cui iniziamo il mese di Dicembre con la nuova rubrica: MA CHE FILM! Ogni sabato fino al 2 gennaio, pubblicheremo una citazione collegata ad un piatto della nostra super cuoca Loriana. Avrete tre possibili risposte e dovrete indovinare il film giusto. Cosa si vince? La gloria! Eh ragazzi, c’è la crisi! Scherzo, inviateci ogni settimana la vostra risposta su Instagram, Facebook o a info@machebuoni.it per vincere immediatamente un buono sconto del 20% da utilizzare sul nostro sito, una tantum, fino al 10 Gennaio 2021.

Ragazzi fatevi sotto, questa settimana apriamo le danze con un mito in carne ed ossa… a voi scoprire chi è!

Marchigiani nel DNA

In bilico tra glamour e autenticità: i marchigiani nell’epoca dei social

Da quando ho iniziato a lavorare, ho sempre seguito tante cose diverse in azienda. E non potrebbe essere altrimenti, perché siamo piccoli e nelle realtà come la nostra devi per forza saperti destreggiare tra mille cose. Questo vale per me, come per molti altri della mia squadra. Spesso mi capita che nel giro di una mattinata io debba passare dalla contabilità, al controllo etichette. Dagli ordini ai fornitori, alla logistica. Dal piano di autocontrollo HACCP, ai corsi di aggiornamento per la sicurezza sul lavoro. In questi giorni però mi sto dedicando tanto a quello che mi piace di più in assoluto del mio lavoro: i clienti.

Da un lato c’è un rapporto “in carne ed ossa”, perché abbiamo attivato il ritiro in sede e le persone vengono a provare le nuove SurpriseBox o ritirare le Magic box TooGoodToGo. Anche se ci vediamo a distanza e siamo coperti dalle mascherine, ho comunque modo di scambiare due parole e di sentire i loro commenti. Il che è una gran bella cosa, perché fanno piacere sia i complimenti sia gli spunti di miglioramento o le critiche.

Dall’altro lato c’è il rapporto “virtuale”, con i clienti a cui consegniamo in tutta Italia. Questo è più impegnativo, perché non posso fare affidamento sulla memoria fotografica. Però ho preso l’abitudine di guardare gli ordini della settimana e scrivere una mail ad ognuno per sapere se si sono trovati bene e quali consigli hanno per aiutarci a migliorare (nuovo ruolo: CRM umano). Richiede tempo, però è davvero utile. In uno di questi scambi neo epistolari, una gentilissima ragazza mi ha dato il suo feedback su Ma Che Buoni e su altri due siti da cui ha acquistato pasti pronti. Uno lo avevo già testato, mentre l’altro lo conoscevo solo di nome. Così stamattina, sbrigate le incombenze più urgenti, sono andata a vedere cosa offrivano di interessante e ho effettuato un ordine.

Quando ho visto il sito ho immediatamente fatto due considerazioni: dal punto di vista tecnico, offre funzioni molto più avanzate del mio. Inoltre, c’è tanto, tantissimo “glam”. Cosa intendo? Intendo che in home page c’è un cuoco che fa fare le giravolte a un invitante trancio di pesce, per poi stenderlo sul tagliere ed “accarezzarlo” col coltello. Gli ingredienti si mischiano e saltano in padella come stessi guardando Uliassi che cucina solo per te. Poi, andando a leggere le ricette, scopro che sono molto simili alla nostra selezione Natural Eat. MA, ma… C’è un MA che fa tutta la differenza! Presentano il tutto molto meglio di come facciamo noi con i nostri piatti unici. È come se conoscessero il segreto per vivere sani, belli e muscolosi fino a 150 e volessero condividerlo con te che li osservi. A me non sarebbe mai venuta in mente una home page del genere. Mi rendo conto che per quanto mi sforzi di imparare un nuovo modo di lavorare, di base sono convinta di una cosa: conta la sostanza, non la forma. Il mio metro di giudizio si basa su questo, non ci posso fare niente. Per questo non avrei mai pensato a un sito del genere. E’ il motivo per cui non sopporto i cuochi stellati, ma amo profondamente Benedetta Rossi. Il suo è l’unico programma di cucina che io abbia mai seguito in vita mia. E’ genuina, come quello che prepara. Senza artifizi, parla la mia lingua. A mio avviso, è questa una delle caratteristiche principali di noi marchigiani: facciamo cose buone e le presentiamo in modo semplice, perché siamo convinti che solo questo conti. Ma siamo sicuri di aver ragione?

Mi sa di no. Non siamo tutti Benedetta Rossi. E soprattutto, nel 2020 non si può pensare che basti cucinare bene per tenere in piedi un’azienda di pasti pronti. Questo però non significa voler tradire la nostra identità (anche perché non ci riusciremmo!). Quindi che fare? Mi sono risposta che l’unica cosa sensata è imparare da chi fa meglio. Per quanto riguarda Ma Che Buoni questo vuol dire rimettere in discussione il nostro punto di vista e imparare a raccontarci al meglio. Ad esempio attraverso questo blog, attraverso i social, attraverso il nostro sito. Affidandoci a voi che avete un punto di vista esterno. Affidandoci anche e soprattutto al sostegno di chi lo fa di mestiere. Qualcuno che sappia incanalare la nostra “marchigianità” nel modo giusto. E, ovviamente, continuare a fare bene quello che più amiamo: cucinare!

Ma Che Buoni: artigianale, marchigiano.

PS: in questo percorso ci accompagnano le ragazze di KakiDigital, e per fortuna che ci sono! Da sola non avrei combinato la metà di quello che ho fatto su Ma Che Buoni da luglio ad oggi. Ci mettono il cuore e la fantasia! Ecco qualche scatto in anteprima del “Natale” marchigiano che stiamo preparando insieme, per voi…

Dal Cassero al web: la (mia) esperienza di sostenibilità imprenditoriale.

“Da grande farò altro”. Come (non) essere coerenti nella vita.

All’età di circa 8 anni, maturai una decisione di cui ero convintissima: nella vita non avrei mai fatto il lavoro dei miei genitori. Essere imprenditori ai miei occhi era troppo impegnativo, tutto lavoro e zero tempo per la famiglia. No, non era per me. Io avrei viaggiato per il mondo, studiato e poi trovato un impiego che mi avrebbe lasciato molto tempo da dedicare ai miei figli. Oggi di anni ne ho 34, sono titolare d’azienda e passo fuori casa circa 12 ore al giorno: se non fosse per i miei (santi) suoceri spenderei 3/4 dello stipendio in baby sitter. E se non fosse per i miei (altrettanto santi) genitori, le ore fuori casa sarebbero molte di più. La coerenza è tutto nella vita.

Vi racconto questo, perché mi è stato chiesto di intervenire come relatrice ad un evento organizzato dall’Università degli Studi di Macerata e di portare la mia testimonianza.

Fino a soli dieci anni fa partecipavo come studentessa a questo tipo di eventi, oggi mi trovo dall’altra parte del microfono. Posso dire che è una gran figata?! Lo so, è poco elegante. Allora dirò che è una gran soddisfazione.

Che dire?! Per quello che mi riguarda, la mia esperienza di imprenditorialità è iniziata ben prima dell’anno in cui ho aperto partita IVA: nel 1984 e quei matti dei miei genitori aprirono un ristorante da cerimonie nel bel mezzo della campagna marchigiana. Dico matti, perché a pensarla oggi una cosa del genere sembra impossibile. 24 anni papà e 22 mamma, nessuna esperienza nel settore, solo tanta energia e voglia di costruirsi un futuro all’altezza delle loro aspettative. Dopo 2 anni si ritrovarono con un nuovo membro dello staff, io!

foto ricordo 1989 machebuoni
1989: il giovedì gnocchi

Per me è iniziato tutto lì, su quella collina da cui si vedeva il mare e dove le persone venivano a sposarsi. Lì, dove decisi che nella vita avrei fatto altro (ci ho creduto per davvero!), ho imparato cosa significa lavorare, fare sacrifici, ma anche la gioia di vedere un cliente soddisfatto. L’importanza di sapersi organizzare, di pensare fuori dagli schemi per essere capaci di proporre per primi le novità, sulla tavola e fuori. Dopo tanti anni c’è ancora chi mi incontra e si ricorda di mio padre che preparava i preventivi al computer e li stampava nel suo ufficio, quando tutti gli altri andavano di carta e penna. Oppure chi mi parla dei piatti di mia madre, che – anni luce prima della moda “healthy”- già accostava ingredienti nuovi e proponeva il giusto equilibrio tra gusto e leggerezza. Nel ’99 avevamo il primo sito internet e mio padre parlava di spesa online. Si, l’imprenditorialità l’ho imparata lì (anche se poi Amazon è nato in America e non al Cassero di Camerata Picena!).

Sono passati tanti anni, tutto è finito nel grande calderone della vita e oggi mi viene chiesto di portare la mia testimonianza a ragazzi che stanno per affacciarsi al mondo del lavoro. Spero di farlo al meglio, “sostenibilità” è un termine che ha molte declinazioni, in primis ambientale, sociale ed economica.

Ne parlerò venerdì 16 ottobre 2020, alle ore 17 in collegamento con i partecipanti al seminario online. Per chi volesse seguire il mio intervento, pubblicheremo la registrazione su Instagram tv e YouTube nei prossimi giorni.

Ma che snack. La mia nutrizionista è differente.

“Voglia di qualcosa di buono”, ma Ambrogio non c’entra niente…

Si, lo so, la frase originaria era “la mia banca è differente”, ma quando penso a Elisabetta, Francesca e Sonia io non trovo definizione migliore.

Ci siamo conosciute a fine 2015, quando un caro amico di famiglia telefonò a mio padre dicendogli “Giordano, ho un progetto fantastico da sottoporti”. Quel progetto si chiamava Eat&Out ed io lo abbracciai immediatamente, con tutto l’entusiasmo di cui sono capace quando qualcosa mi interessa davvero. Del resto era difficile non innamorarsene: un gruppo di ricercatrici dell’Università Politecnica delle Marche mi proponeva di produrre menù nutrizionalmente bilanciati, da consumare in pausa pranzo, per un’alimentazione migliore. Sentivo parlare per la prima volta di topinambur, semi oleosi, dell’importanza delle farine integrali nella dieta di ogni giorno. Un mondo nuovo, tutto da scoprire. Una nuova opportunità di crescita, professionale e personale.

PS: non me ne sono innamorata solamente io, anche la giornalista del TG3 Marche Annalisa Serpilli, che infatti venne ad intervistarci in azienda! Clicca per vedere il servizio di FarMarche, video 1 e video 2 del 10 maggio 2016.

5 anni dopo, la collaborazione continua. Sarebbe davvero professionale (e figo) dire che ho condotto indagini di mercato approfondite e che ho studiato attentamente i trend dei consumi degli ultimi anni, prima di rivolgermi alle amiche di Biomedfood. In realtà ero semplicemente a dieta e non ne potevo più di alternare cracker industriali a 20 grammi di mandorle a merenda. Non me ne voglia nessun nutrizionista, ma se sei un tantino goloso, dopo un mese di restrizioni ti viene il latte alle ginocchia. Ho pensato questo: quanta gente, come me, fa un lavoro sedentario e non sa cosa mangiare per fermare la fame di metà mattina o metà pomeriggio? Oppure, quanti lavorano di notte e hanno bisogno di uno snack che gli permetta di ricaricare le batterie? Le merendine non mi sono mai piaciute e le “macchinette” – i distributori automatici negli uffici – vendono solo prodotti pieni di zuccheri. Non sempre si ha tempo o voglia di prepararsi qualcosa da casa. Quindi si, poi ho fatto le mie belle indagini di mercato, ma l’idea è nata proprio così. Nuda e cruda: avevo “voglia di qualcosa di buono”, ma non potevo permettermi gli zuccheri dei Ferrero Rocher di Ambrogio (se c’è qualche giovincello che si sta domandando chi sia Ambrogio, prego di farsi una cultura qui, grazie).

E così è nato #machesnack. Ideato da professioniste della nutrizione e creato dalle abili mani di Alex, sotto la guida del capo supremo della nostra cucina: mamma Loriana. All’inizio c’è stato da lavorare, i primi biscottoni sfornati sapevano più di segatura che di biscotto e la barretta si sfaldava appena la toccavi. Ma abbiamo lavorato a lungo su tutte le ricette ed il risultato è ottimo e soprattutto unico nel suo genere; infatti, le aziende che producono snack “salutistici” sono di ben altre dimensioni e hanno dei budget spesi in marketing che probabilmente valgono il doppio del mio bilancio di esercizio degli ultimi due anni. Non importa, non voglio mettermi in concorrenza con i colossi che si trovano al supermercato. Per me è motivo di orgoglio che una piccola azienda come la mia, porti avanti progetti di ricerca come questo.

Clicca qui per scoprire tutta la linea

Clicca qui per vedere il primo degli 8 video della rubrica “Nutrizione & Benessere” di MaCheBuoni.

Perché scrivere di cucina (se non sai cucinare)?

Perché parlare di cucina, se non sai cucinare? E perché il calzolaio va in giro con le scarpe buche?

Quando è nato MaCheBuoni, siamo stati letteralmente travolti dagli eventi. Era appena partita l’emergenza Covid-19 e dovevamo riorganizzare il lavoro il prima possibile. La priorità era adeguarsi velocemente per riuscire a fornire un servizio adatto alla nuova situazione in cui ci trovavamo. Siamo partiti e basta, senza pianificazioni, senza marketing e grafiche accattivanti, solo seguendo l’istinto (di sopravvivenza!).

13 Marzo 2020. Una crostata e tante verdure per la nostra prima cliente, la signora Rita, 87 anni!

A distanza di 6 mesi, mi sembra il momento di fare un piccolo salto di qualità. Quindi torniamo alla domanda iniziale: “perché parlare di cucina (se non sai cucinare)?”. La risposta è che attraverso questo blog vorrei raccontarvi il dietro le quinte di MaCheBuoni. Vorrei parlarvi di come nascono le ricette, delle persone che collaborano al progetto, delle difficoltà e delle soddisfazioni di tutti i giorni. E vorrei farlo attraverso il mio punto di vista, che parte proprio dalla cucina. Non sono molto brava ai fornelli: un piatto di pasta o una frittata sono le mie creazioni più elaborate. I miei figli sono sempre inappetenti se preparo io la cena, mentre puliscono il piatto quando vanno dalla nonna. Un po’ come il calzolaio che ha le scarpe rotte: la mia azienda produce piatti pronti, ma io che sono la titolare non li so cucinare. Conosco i miei limiti, ma posso tranquillamente affermare che in cucina ci sono nata e cresciuta. Per me la cucina era la possibilità di stare vicina a mamma quando io ero piccola e lei lavorava al ristorante: a 4 anni impastavo gli gnocchi, a 11 friggevo patatine e preparavo taglieri. La cucina era il profumo dei cannelloni a casa di nonna, le tavolate zii e cugini. La cucina per me è un po’ come la Madeleine di Proust. Beh certo, siamo nelle Marche, quindi invece che di Madeleine sarebbe più indicato citare un bel coniglio in potacchio o un panino al ciauscolo, ma il concetto non cambia.

Vivo questa azienda a tutto tondo, e lo faccio perché è uno stimolo continuo a crescere e migliorarmi, non solo perché devo portare a casa uno stipendio. Perciò ecco, mi presento: sono Maila Perugini, 34 anni, cuoca mancata e titolare di un’azienda di pasti pronti. Spero di farvi un po’ sorridere con i miei racconti, di incuriosirvi e di creare uno spazio che mi permetta di avere un riscontro diretto con chi acquista (o non acquista) i miei prodotti.